Chiesa Evangelica di Cicciano

La proposta pentecostale

Il titolo di questo articolo non è casuale; spesso, infatti, ci si imbatte in testi e saggi sul pentecostalesimo che usano il termine ‘sfida’. Si legge, qui e là, di ‘sfida pentecostale’; un linguaggio che rievoca immediatamente atteggiamenti destabilizzanti, aggressivi o inquietanti. La spiritualità pentecostale e la teologia che essa sottintende non costituiscono una sfida; si tratta piuttosto di una proposta: discutibile, accettabile o meno, interessante o meno. Il pentecostalesimo per sua intima natura non può e non vuole sfidare niente e nessuno, tanto meno entrare in concorrenza con qualsivoglia soggetto ecclesiastico. E’ evidente che un certo tipo di linguaggio deriva dall’ansia e dalla preoccupazione che caratterizza i tradizionali soggetti veicolanti il sentimento religioso per via delle tumultuosa, imprevista ed imprevedibile crescita di una pluralità di soggetti ecclesiali raggruppabili sotto la denominazione di ‘movimenti pentecostali’, non omogenei e spesso molto distanti tra di loro.

Quale tipo di proposta può venire dal pentecostalesimo?

Oggi la religione non è più immaginata come qualcosa di statico, ma come un insieme di fenomeni in movimento; si tratta di un’articolazione difficile da comprendere e spiegare, ma in grado di creare problemi notevoli ai veicoli tradizionali del credere: cioè le grandi chiese istituzionalizzate abituate da secoli ormai più ad essere amministratrici del sentimento del ‘sacro’, anziché luoghi in cui si propone un’esperienza di Dio e della fede in Lui. Naturalmente il problema non è solo endogeno, ma legato anche ad una serie di trasformazioni nel sentimento religioso degli individui che sempre meno cercano risposte alla loro sete religiosa nell’appartenenza e sempre più si rivolgono a forme di esperienza diretta. Contrariamente a quanto spesso si crede la cosiddetta ‘crisi del cristianesimo’ non consiste nella crisi del messaggio cristiano, ma nella crisi delle organizzazioni che dovrebbero annunciare quel messaggio; pertanto, ciò che caratterizza la cristianità sul piano sociologico non è l’indifferenza alla religione, bensì il fatto che il credere religioso sfugge ampiamente al controllo delle grandi chiese e delle istituzioni religiose. Ormai assistiamo ad uno sorta di deregolamentazione dell’identità religiosa svincolata dai canali ‘storici’ e ci troviamo di fronte ad una proliferazione di nuovi movimenti spirituali; questi, sempre più spesso, si propongono come vere e proprie alternative alle chiese tradizionali sviluppando reti di vita comunitaria in cui la stabilità del credere non è data più tanto da una ‘tradizione’ che la sostiene, ma dalla condivisione di una medesima esperienza. Insomma, siamo nell’era del believing without belonging, credere senza appartenere, come è stato detto con una felice formula. Con la crisi delle identità religiose ereditate si è aperta una crisi profonda nelle società cosiddette cristiane; non si tratta più degli inevitabili aggiustamenti generazionali, ma di ricercare forme radicalmente nuove di espressione e di esperienza religiosa. Si afferma sempre di più la domanda di una religione a scelta che metta in evidenza l’esperienza personale e l’autenticità di un percorso di ricerca; cosa che ha ben poco a che vedere con la preoccupazione di essere conformi a verità religiose garantite da un’istituzione.

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Nelle vicende storiche e comunitarie del pentecostalesimo non è difficile rinvenire aspetti di una religiosità con queste caratteristiche; da circa un secolo il pentecostalesimo costituisce la risposta silenziosa e finora convincente alla secolarizzazione (comunque la si voglia intendere) della cristianità creando forti sentimenti di aggregazione intorno ad esperienze marcate di vita comunitaria e spiritualità individuale. Ed è precisamente in queste caratteristiche che consiste la proposta pentecostale, una proposta che il cristianesimo del XXI secolo non deve lasciarsi sfuggire. Il pentecostalesimo è sorto e si è sviluppato durante il XX secolo; il ‘900, a detta di autorevoli osservatori, è stato un secolo difficile e molto impegnativo per il consorzio umano. Basta, infatti, un semplice sguardo agli eventi che lo hanno caratterizzato per capire quanto sia stato vorticoso e pericoloso il cammino fatto e quante tragedie immani lo abbiano accompagnato insieme alla nascita di grandi speranze: due guerre mondiali, conflitti regionali cruentissimi come quelli del Vietnam e simili, le dittature nazifasciste e comuniste, le bombe atomiche; ma poi lo sbarco sulla Luna, i progressi della scienza, lo sviluppo delle comunicazioni, l’era dei computers. Questo per limitarci solo a qualche cenno di un elenco che è molto più lungo. Vi è stata, dunque, un’autentica accelerazione della storia che, sul piano economico, ha prodotto squilibri immensi se è vero come è vero che il 10 % dell’umanità possiede il 90 % delle ricchezze mondiali e che il ristretto numero dei paesi ricchi è tale perché sfrutta le risorse dei paesi poveri; condizioni queste che hanno prodotto emarginazioni terribili creando la Periferia come categoria esistenziale, come condizione di vita di centinaia di milioni di persone alcune delle quali presenti anche nei paesi ricchi. Non è stata semplice, perciò, la sfida che un movimento religioso come il pentecostalesimo ha dovuto raccogliere per proporre la scelta della fede come via praticabile dell’esistenza umana; con tutta probabilità esso è il più esteso fenomeno religioso manifestatosi in seno alla cristianità, sicuramente il più clamoroso del Novecento. La multiversa origine e la multiforme affermazione raggiunta sono ancora lontane dall’essere studiate nelle loro varie implicazioni; per molte ragioni è un fenomeno ancora in svolgimento, nonostante il secolo di storia che ormai ha alle spalle e i circa 500 milioni di persone che ispirano la propria vita religiosa ad una spiritualità di tipo pentecostale: un quarto dell’intera cristianità. L’inizio della sua diffusione si ebbe in quelle aree geografiche dove il protestantesimo costituiva il riferimento della maggioranza della popolazione (America del nord ed Europa settentrionale) per poi estendersi quasi subito anche a paesi dove era predominante il cattolicesimo o l’ortodossia (Europa orientale e meridionale, America del sud ); di là , nel giro di pochi anni, arrivò nei cosiddetti paesi di missione (India, Cina, Oriente in genere e Africa). Il pentecostalesimo, quindi, nasce agli inizi del secolo e si propone ora come movimento di risveglio interno alle chiese (in area protestante), ora come movimento di riforma (in area cattolica e ortodossa), ora come movimento d’azione missionaria.

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I pentecostali non hanno mai amato le statistiche e, di fatto, è difficile rinvenirne di ufficiali; qualche volta si da di loro una stima esagerata, altre volte si minimizza. Chi invece compila statistiche ufficiali dice che i pentecostali (quelli di ogni latitudine) costituiscono la maggioranza assoluta del protestantesimo mondiale e rappresentano un terzo di tutti i cristiani; in Italia, naturalmente, tutto questo lo si ignora semplicemente o si fa in modo di non dirlo. La stampa italiana in genere si disinteressa completamente dei protestanti tranne quando bisogna metterli in cattiva luce; quella religiosa in particolare si interessa solo delle chiese che contano. A dirla tutta anche la stampa evangelica ha cominciato ad occuparsi seriamente dei pentecostali solo in tempi molto recenti e c’è da credere che il rilievo numerico abbia costituito un incentivo non secondario a questo interessamento; speriamo solo che vi siano altre ragioni per interessarsi dei pentecostali oltre che per la loro consistenza giacché ormai tutti sanno che in Italia le chiese pentecostali costituiscono di gran lunga la denominazione evangelica più numerosa (oltre l’80%) anche se la meno visibile nonostante in alcune regioni del Sud quasi non ci sia comune in cui non vi è una chiesa pentecostale (in alcuni capoluoghi di provincia i pentecostali si contano a migliaia) con un radicamento sul territorio che nella storia del protestantesimo italiano non ha precedenti. D’altra parte, i pentecostali non hanno mai pensato a contarsi: a loro sta a cuore un’esperienza di fede da comunicare più che un dato statistico; alla base di questo convincimento c’è un assunto semplice e significativo di una posizione: il Signore conosce i suoi e perciò è inutile contarsi.

Oltre al fatto di essere cristiani nel senso dei grandi dogmi della fede (trinità, divinità di Gesù Cristo) i pentecostali sono pienamente inseriti nell’alveo della riforma protestante accettandone i principi fondamentali (centralità e autorità delle scritture bibliche, salvezza per sola grazia mediante la fede). Il suo immediato retroterra teologico è costituito dai grandi risvegli religiosi che hanno periodicamente attraversato il protestantesimo del XVIII e XIX secolo evidenziando l’urgenza dell’impegno personale del credente e la necessità di una significativa esperienza di salvezza (conversione intesa come evento databile, santificazione come work in progress della grazia divina). A ciò il pentecostalesimo aggiunge una specifica componente pneumocarismatica (cioè la convinzione che Dio in quanto Spirito agisca in maniera sensibile nella vita del credente singolo e della comunità dei credenti) caratterizzata dalla fede nella guarigione divina, nella liberazione operata da Dio attraverso la preghiera e l’intercessione, nella profezia intesa come attività spirituale volta all’esortazione e al discernimento che talvolta assume anche caratteristiche di chiaroveggenza.

Gli aspetti caratteristici del pentecostalesimo, però, anziché essere inquadrati nel più ampio retroterra storico-teologico e spiegati alla luce di questo magari tentando anche un confronto con le Scritture bibliche sono stati estrapolati e considerati gli unici elementi di valutazione; nella maggior parte dei casi sono stati valutati in modo negativo. Dall’area evangelica di tendenza fondamentalista sono arrivate senza mezzi termini accuse di diabolicità; quella riformata ha semplicemente evitato di porsi il problema ispirandosi ad una bonaria (ma non troppo) superiorità nei confronti di persone che, nel migliore dei casi, andavano compatite per la loro ignoranza. La chiesa cattolica oscilla tra la tolleranza e l’accusa di settarismo, in base al contesto: considerando soprattutto il grado di affermazione numerico e la ‘concorrenza’ sul campo. Parole come esperienza, emotività, entusiasmo sono state utilizzate come categorie teologiche interpretative di un fenomeno che spesso si conosceva solo per sentito dire o per aver assistito una volta ad un incontro pentecostale. Si è discettato ad infinitum sul concetto di ‘ordine del culto’, ma quasi sempre immaginando che questo corrispondesse alla propria idea di ordine quando non al proprio modo di celebrare il culto; si è usata l’ambigua categoria di ‘religione popolare’ per descrivere in termini antropologici e sociologici una spiritualità che aveva robuste radici teologiche e una solida tradizione, seppure vissuta spesso in modo piuttosto inconsapevole.

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Non intendo certo minimizzare o sublimare gli aspetti problematici della spiritualità pentecostale; tuttavia non si può negare che il suo carattere coinvolgente o spesso più modestamente catturante, carico di emotività e di gestualità anche nello svolgimento dei culti, sia uno degli elementi del suo successo (ammesso che il termine ‘successo’ sia consono alle problematiche ecclesiali: ne dubito!). Venti o trenta o forse anche dieci anni fa il culto brioso e movimentato dei pentecostali destava scalpore e meravigliava quando non scandalizzava altri evangelici; oggi che nelle chiese evangeliche locali girano decine e decine di extracomunitari che si esprimono con una liturgia molto più mossa ed ‘emotiva’ anche se di provenienza non pentecostale nessuno trova più nulla da ridire. D’altra parte, non si capisce perché l’emotività che è una delle componenti fondamentali dell’agire umano dovrebbe essere bandita dall’esperienza di fede; possiamo discutere come vada gestita, ma non possiamo annullarla: battere le mani, agitarle, stringerle al vicino, sono tutti gesti che connotano stati d’animo veicolando un preciso linguaggio non verbale; per quale ragione in un culto non dovrebbero essere accettati se opportunamente gestiti? Aldilà delle mode o delle esagerazioni è un grave errore sottovalutare la dinamica psicocorporea nell’espressione di fede che nel culto pubblico può diventare strumento di comunicazione; il culto pentecostale e le giovani chiese africane ed asiatiche stanno spingendo in una direzione diversa con le loro innovazioni nel rapporto, ad esempio, che intercorre tra musica, liturgia e corpo; è tempo di ripensare alcune categorie e chiedersi quali sono le vie nuove (o se volete ‘attualizzate’) per esprimere la propria fede senza mortificare le tante forme espressive a cui si può ricorrere. Certo, un po’ di tradizione farebbe bene alle chiese più giovani, ma sarebbe consigliabile che anche le chiese di più lunga storia siano alquanto flessibili e meno rigide nel mantenimento di talune tradizioni anacronistiche.

Oltre a ciò c’è una categoria della spiritualità pentecostale che può riassumere il senso di una proposta di fede: quella dell’incontro con Cristo. C’è un motto che i pentecostali usano spesso e che può aiutare ad entrare con semplicità nella loro confessione di fede cristologica: Gesù salva, guarisce, battezza con lo Spirito e ritorna. Come si vede i verbi esprimono azione e questa azione si svolge nel presente creando relazione. E’ noto che il NT insiste molto sulla permanenza dell’azione di Gesù Cristo nella storia della salvezza post-pasquale; ecco io sono con voi fino alla fine dei tempi (Mt.28,20). La continuità della sua azione salvifica si manifesta a Pentecoste quando, con la realizzazione della promessa relativa alla venuta dello Spirito, egli si rende presente in ogni tempo per ognuno; si rende presente, si rende vicino, si inserisce ancora in un circuito di relazionalità: colui che è stato crocifisso, è risorto ed ormai è Signore avendo un nome che è al di sopra di ogni altro nome (Atti 2,32.36). Gesù non è più sulla terra, ma lo Spirito lo rende presente e raggiungibile attraverso l’invocazione e la preghiera; non bisogna, infatti, dimenticare che il centro della spiritualità pentecostale è la preghiera, anzi qualcuno ha detto che essa è l’attività teologica primaria dei pentecostali. E’ attraverso la preghiera che ci si apre all’azione dello Spirito e questa apertura nello Spirito produce le condizioni per un incontro con Gesù il Cristo; un incontro che permette di riconoscere in lui la Parola di Dio, ma anche la potenza di Dio: infatti il messaggio dell’evangelo è potenza per il credente (Rom.2,16).

Questa prospettiva di relazione con Cristo nella spiritualità pentecostale diventa decisiva ai fini della missione cristiana perché oggi come allora la questione decisiva non è la verità riguardo a Gesù, ma la verità di Gesù che non può essere compresa mediante sangue e carne, cioè in termini noetici, ma per opera di una rivelazione che solo lo Spirito può trasformare in convinzione: perché solo Lui può convincere (Giov.16,8). E come? Rendendo possibile ancora oggi un incontro con il Cristo; non è l’insegnamento che convince, ma l’incontro. I concittadini della samaritana affermarono che non era più a motivo di ciò che ella aveva raccontato che credevano, ma perché ormai l’avevano incontrato (Giov. 4,42). Paolo diventa apostolo di Gesù Cristo non perché convinto dalla teologia di quelli che perseguitava, ma perché Lo incontra personalmente; qualunque sia la prospettiva ermeneutica entro la quale vogliamo collocare il racconto dell’episodio sulla via di Damasco è chiaro che il significato di quel testo è nell’incontro (Atti 9,5; ma anche 1 Cor.15,8) e probabilmente se ne può trovare un’eco in quell’affermazione difficile da collocare sul piano esegetico di 2 Cor.5,16: anche se abbiamo conosciuto Cristo secondo la carne ora però non lo conosciamo più così. Non c’è pentecostale con non ricorra alla categoria dell’incontro nel proporre la testimonianza della propria fede come credente in genere, come cristiano in particolare. Anche perché nella maggior parte dei casi il pentecostale proviene da una vera e propria con-versione, un mutamento radicale dello stile di vita dove la speranza cristiana diventa esperienza del quotidiano e la testimonianza della fede è racchiusa in un invito a credere sulla base di un vieni e vedi. Dove il vedi non è riferito ad una qualche possibilità di appropriazione oggettiva, perché nella via cristiana non si procede per visione; piuttosto vieni e vedi la potenza trasformazionale che la fede è capace di operare nel circuito esistenziale dell’individuo. E quest’opera viene attribuita direttamente a Cristo. Il pentecostale è orientato verso un cammino essenzialmente testimoniale e missionario; egli narra il suo incontro con Cristo e afferma che la forza dello Spirito lo rende possibile a tutti e perciò invita, con un atteggiamento kerigmatico, a credere con semplicità al messaggio dell’evangelo. Alla fine non importa se il Cristo che riempie la visione del credente sia il Gesù storico, il Salvatore vivente, il Cristo di carne e ossa, il Logos Signore dell’universo, il padrone dei secoli che dà alla storia il suo vero significato oppure il Cristo nascosto nel prossimo e nei poveri. Questi non sono che aspetti del suo essere; qualunque sia l’aspetto in cui egli è più reale per noi, ciò che importa è che noi l’adoriamo.

Troppo spesso, però, secondo i pentecostali si perde di vista questo dato essenziale e il nostro interesse è più dominato dalle discussioni cristologiche anziché dal modo in cui Cristo si è rivelato a noi. La proposta pentecostale consiste nell’invito a tornare ad una fede semplice, ma non semplicistica; forte, ma non magica; teologicamente elaborata, ma non confusa con le astrazioni dell’intelletto.

Pubblicato sul periodico “L’informatore pentecostale” e su “Coscientia” nel 2005