Chiesa Evangelica di Cicciano

I pentecostali e l'ecumenismo

1. Cenni storici

   Le chiese pentecostali sanno che il movimento ecumenico, nato all’inizio del Novecento quasi in concomitanza con quello pentecostale, costituisce uno dei fatti più significativi della cristianità contemporanea e forse dell’intera storia del cristianesimo; allo stesso tempo esse sanno che questi due grandi eventi del XX secolo si sono sviluppati per vie parallele che solo di rado si sono incontrate. Ciò è dovuto a motivi storici e teologici. I motivi storici risiedono nel fatto che l’ecumenismo contemporaneo, la cui data di nascita è fatta coincidere con la conferenza missionaria di Edimburgo del 1910, prendeva corpo all’insegna del dialogo tra chiese che proprio negli stessi anni consideravano il risveglio pentecostale come una minaccia da cui guardarsi piuttosto che come una proposta con cui confrontarsi; i motivi teologici risiedono nel fatto che la spiritualità pentecostale è stata considerata per decenni più una stravaganza anziché un’istanza che affondava le radici nella più antica tradizione cristiana. I pentecostali non fecero molto per correggere questo tipo di distorsioni e, anzi, certi modi di porre le questioni e di porsi di fronte ad esse favorirono tale incomprensione; ciò ha generato sospetti e pregiudizi tali da produrre una chiusura reciproca fino a tempi recenti. Tra le altre cose, non si può sottovalutare il peso che ebbe la dinamica che portò alla nascita delle chiese pentecostali; come si sa, esse derivano da un movimento di risveglio che all’inizio del XX secolo attraversò trasversalmente le chiese evangeliche esistenti soprattutto in area angloamericana. Il fenomeno suscitò interesse e ravvivamento della fede, ma anche molte critiche e aspre opposizioni che nel giro di un decennio obbligarono migliaia di persone a riconoscersi in nuove forme di chiese. Si capisce, quindi, come fosse assai difficile che ci potesse essere un incontro tra questi due fenomeni che nacquero quasi contemporaneamente, ma per ragioni e con dinamiche molto diverse.

   A partire dal secondo dopoguerra ci sono stati segnali di cambiamento legati soprattutto ad eventi accaduti negli USA che hanno coinvolto personalità autorevoli del mondo pentecostale e hanno prodotto delle significative aperture; ciò in concomitanza con quella che nella manualistica di studio del fenomeno pentecostale va sotto il nome di ‘seconda ondata’. Si trattò di un revival dell’esperienza pentecostale che interessò in maniera trasversale le chiese evangeliche americane come era accaduto all’inizio del secolo; la differenza sostanziale fu nel fatto che questa volta le chiese, probabilmente già sensibilizzate dalla metodologia ecumenica, anziché respingere tale esperienza cercarono di mantenerla al proprio interno con il risultato di veder nascere ‘correnti’ pentecostal-carismatiche facenti capo a pastori o teologi eminenti. Da questo fenomeno fu interessata anche la chiesa cattolica al cui interno verso la metà degli anni Sessanta nacque il movimento carismatico originato dall’esperienza di studenti e professori dell’Università Duquesne di Pittsburgh come diretta derivazione dal contatto con i pentecostali della ‘seconda ondata’. In questo contesto nacque la presenza pentecostale nei circuiti ecumenici che qualche anno prima era culminata nell’invito rivolto al pastore David Du Plessis (1905-1987) di partecipare come osservatore al Consiglio Ecumenico delle Chiese e come ospite alla terza sessione del Concilio Vaticano II; da questa presenza derivò l’avvio dei dialoghi tra cattolici e pentecostali ormai in piedi da quarant’anni, anche se i partecipanti lo fanno quasi sempre a titolo personale. In tempi molto più recenti si sono sviluppati dialoghi significativi tra pentecostali e riformati; ed è sorprendente che questo sia accaduto a più di venti anni di distanza dall’inizio dei dialoghi con i cattolici. Naturalmente l’apertura del fronte di dialogo tra pentecostali ed altri cristiani è di natura particolare. Infatti, nessuna chiesa pentecostale classica fa parte degli organismi ecumenici; solo qualcuna delle giovani chiese pentecostali africane e latino americane ha aderito in tempi recenti. A tal proposito mi sembra significativo segnalare il risultato che sta ottenendo il Global Christian Forum per quanto riguarda la partecipazione delle chiese pentecostali; probabilmente il carattere meno istituzionale e più rivolto ad analizzare la situazione esistente facilita tale partecipazione. Le sue attività sono cominciate nel 1998 e per alcuni anni questa rete ha lavorato con discrezione fino a quando nel 2007 nell’incontro di Nairobi non si è avuta la conferma che il lavoro prodotto aveva dato significativi risultati; in questo circuito le chiese pentecostali si sentono più a loro agio rispetto a quanto finora si era potuto auspicare nel Consiglio Ecumenico delle Chiese. È noto che il mondo pentecostale è talmente vasto e variegato a livello mondiale da ritenere difficile un inquadramento in un’unica cornice teologica ed ecclesiologica di chiese e movimenti a volte molto diversi tra di loro e mossi da motivazioni diverse anche nelle scelte ecumeniche. In ogni caso, queste iniziative segnalano che qualcosa va rivisto nei meccanismi e forse anche nelle politiche dei grandi organismi ecumenici se si vuole favorire la partecipazione dei pentecostali che fra due decenni, stando alle valutazioni di autorevoli studiosi, rappresenteranno la metà dei cristiani nel mondo.

2. La situazione italiana

   Anche le chiese pentecostali italiane in genere riconoscono l’importanza del movimento ecumenico, ma non aderiscono agli organismi ecumenici. I rapporti con le altre chiese evangeliche non sono stati sempre cordiali; solo negli ultimi anni e sotto la spinta aggregativa della Federazione delle chiese pentecostali qualcosa è cambiato; uno dei risultati più vistosi ed interessanti è stato il dialogo con le chiese valdesi e metodiste che ha prodotto interessanti documenti. Quest’esperienza ha stimolato la nascita di un dialogo ufficiale della Federazione con le chiese battiste (UCEBI) e con le chiese avventiste (UICCA). La crescita delle relazioni tra le chiese evangeliche ‘storiche’ con la Federazione pentecostale è culminata con il reciproco inserimento come membri osservatori nelle rispettive assemblee federali. In genere le chiese pentecostali italiane (anche in questo sulla stessa lunghezza d’onda delle consorelle estere) hanno un atteggiamento di prudenza nei confronti dell’ecumenismo per una diffusa incertezza sugli obbiettivi del movimento ecumenico. In particolare esse sono scettiche verso un cammino che a loro sembra teso a salvaguardare gli interessi delle istituzioni ecclesiastiche a scapito di un percorso che corrisponda all’insegnamento biblico sull’unità cristiana e in ciò scorgono il pericolo di una deriva politico-diplomatica.

   Molte chiese pentecostali ritengono che non vi siano oggi le premesse per avviare un dialogo con la chiesa cattolica romana e tanto meno per pregare insieme in occasioni di celebrazioni liturgiche, ad esempio nel corso della «Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani»; questo sia per i rapporti ancora molti tesi in tante realtà locali, sia per una certa strumentalizzazione che in anni passati è stata fatta di qualche tentativo locale di dialogo facendo credere che ormai non c’erano più differenze tra pentecostali e cattolici. Tuttavia, sono consapevoli del fatto che esistono da molti anni dialoghi ufficiali tra la chiesa cattolica romana ed esponenti del mondo pentecostale internazionale. Per loro si tratta però di esperienze lontane che non tengono conto della situazione italiana e spesso hanno comportato il sorgere di sospetto e malcontento in Italia; tra l’altro, nessuno finora ha capito perché a questo tavolo di dialogo mancano importanti e significative espressioni dell’universo pentecostale, vale a dire che non ci sono gli italiani, solo di recente sono arrivati i sudamericani e non ci sono gli africani. Ma ci sono i nord americani e i nord europei. Qualcuno potrebbe avanzare l’ipotesi che ci sono solo loro perché i più attrezzati a condurre un dialogo. Pare che le cose non stiano esattamente così. Ne è prova un episodio accaduto nel 1995 a Bressanone in una sessione di dialogo tra cattolici e pentecostali. A questa sessione di dialogo fu invitato il prof. Walter Hollenweger, decano di tutti gli studiosi pentecostali almeno europei, che fino a quel momento nessuno aveva pensato di invitare. Ebbene, lui pose una questione preliminare da storico e conoscitore delle relazioni tra cattolici e pentecostali in Italia; la questione riguardava l’atteggiamento della chiesa cattolica nei confronti dei pentecostali ai tempi della persecuzione fascista. Questo argomento posto sul tavolo, invece di far riflettere e contribuire ad allargare le maglie del dialogo, provocò un’ingiustificata levata di scudi da parte dei cattolici intorno alla quale ci stiamo ancora interrogando, ma le cui motivazioni più o meno palesi si sono rese manifeste sempre di più in questi anni; vale a dire che la chiesa cattolica sembra voler dialogare solo dove e con chi fa comodo, altrimenti non si capisce perché mentre dialoga con i pentecostali americani, taccia di settarismo quelli sudamericani e ignora quelli italiani. Tutto ciò unito alla confusione derivata dall’avvicinamento di ambienti carismatici cattolici ad alcuni di derivazione evangelica, ha reso ancor più sospettosi i pentecostali circa le vere intenzioni di un dialogo che sembra non toccare mai fino in fondo il merito delle questioni che dividono.

   La complessità di questo quadro, tuttavia, non deve far passare sotto silenzio una difficoltà che è tutta interna alle chiese pentecostali: la questione di un ecumenismo pentecostale necessario a rendere più significativo il contributo all’ecumenismo in generale. La variegata conformazione del mondo pentecostale e la sua multiforme genesi produce posizioni spesso molto diverse su una serie di questioni che vanno dall’ecclesiologia alla concezione del ministero cristiano, dal rapporto con la società a quello con al cultura e da qualche tempo anche al modo in cui si leggono e si interpretano le Scritture e a come il loro insegnamento si cala nella vita quotidiana. Ciò impone l’apertura di una questione ecumenica interpentecostale; vale a dire che i pentecostali dovrebbero imparare a dialogare di più e meglio tra di loro per evitare di lanciarsi scomuniche reciproche anche in relazione alle aperture ecumeniche. Insomma, mentre ci si apre al dialogo con le altre chiese evangeliche, i pentecostali debbono approfondire e irrobustire le loro relazioni e le loro posizioni rispetto a questioni teologiche interne e rispetto al significato stesso dei loro rapporti con altri cristiani. Ciò al fine di evitare incomprensioni che possono ostacolare il cammino di tutti.

3. Le questioni sul tavolo

   È noto che non esiste una definizione univoca dell’ecumenismo, né può bastare definirlo ‘un cammino’: un cammino per andare dove? Vi sono almeno due piani del discorso ecumenico che non sfuggono ai pentecostali: quello di natura spirituale che si richiama all’insegnamento biblico sull’unità e la fraternità e quello di natura politico-diplomatico-istituzionale teso a salvaguardare interessi ecclesiastici che spesso hanno poco a che vedere con l’altro piano e, anzi, ne compromettono le potenzialità.

   In relazione al primo piano i pentecostali credono che la Chiesa di Gesù Cristo è una e unita (Efesini 4,4-6); credono che questo accade attraverso la diversità, ma che questa diversità ha un limite nell’insegnamento della sola Scrittura pur sapendo che anche la comprensione di questo insegnamento può rientrare nelle diversità (1 Corinzi 12,12). Le chiese pentecostali si considerano parte della Chiesa universale, ma credono che l’universalità non abbia nel piano visibile il suo elemento distintivo perché solo il Signore conosce i suoi (2 Timoteo 2,19); ciò implica che non si possano emettere giudizi di valore su persone e chiese, ma si debbano fare distinzioni storiche e teologiche ritenendo il bene e lasciando ciò che non lo è (1 Tessalonicesi 5,21). Perciò l’unità non può essere ricercata a tutti i costi, perché vi sono forme di unità che producono infedeltà verso la Parola di Dio e perciò la divisione risulta necessaria (Luca 12,51; 1 Corinzi 11,19). I pentecostali credono anche che l’orizzonte di salvezza entro il quale la Chiesa vive e sussiste non esclude Israele rispetto al quale si sente debitrice e con il quale condivide le promesse di Dio (Romani 9-11). Ciò premesso credo si possa affermare che i pentecostali accettano il dialogo (inteso come comunicazione di ciò che si è, e ascolto di ciò che gli altri sono) come il metodo più idoneo alle relazioni ecumeniche in vista di una migliore comprensione di ciò che gli altri credono e di come vivono; nello stesso tempo credono anche che “esso possa diventare un modo efficace di testimonianza nei confronti di un mondo che aspetta la manifestazione dei figli di Dio” (Romani 8,19).

   In relazione al secondo piano i pentecostali in genere manifestano una certa perplessità e si chiedono se per caso le finalità di questo tipo non finiscano per mettere in questione fino ad annullarle le verità espresse sopra. Vi è, infatti, una questione fondamentale che divide le chiese pentecostali da alcune importanti chiese cosiddette storiche (inclusa quella cattolica): è il rapporto tra territorio, popolo e chiesa. E’ ampiamente provato nella storia della ‘cristianità’(se l’espressione è lecita) che i movimenti di risveglio quasi sempre si sono configurati anche come movimenti di dissenso; è noto che il dissenso religioso e confessionale mette immediatamente in crisi due cose: l’identificazione tra popolo e chiesa e l’identificazione confessionale tra territorio e chiesa. Entrambi le cose costituiscono la sostanza stessa dell’ecclesiologia di alcune grandi chiese confessionali; questo produce il fatto che le relazioni vengano improntate più sul principio numerico della maggioranza anziché su quello della fraternità e della libertà. Produce anche altri fenomeni come, ad esempio, quello per cui le chiese che sono maggioranza in un territorio si comportano in modo diverso quando sono minoranza in un altro territorio, invocando i diritti delle minoranze quando sono minoranza, comprimendo i diritti degli altri quando sono maggioranza. E’ provato che le chiese e i movimenti pentecostali sono stati e spesso ancora sono conculcati e limitati grazie a questo atteggiamento anche in diversi paesi democratici.

   Riguardo a quest’ultimo aspetto le cose stanno cominciando a cambiare per due ragioni: la prima è legata al maggior grado di laicità degli stati che garantisce maggiore libertà religiosa; la seconda è legata al rilievo numerico delle chiese pentecostali in alcune zone del mondo e che rende ormai impossibile ignorare le loro istanze. Ma molte chiese pentecostali in diverse parti del mondo credono che, a fronte di maggiori spazi di libertà garantiti dalle leggi, si vogliano utilizzare le relazioni ecumeniche per attutire un impatto che comunque viene considerato compromettente quando non pericoloso per le istituzioni ecclesiastiche tradizionali; e non ci si accorge che la crisi delle grandi chiese territoriali non è provocata dalle chiese come quelle pentecostali, ma da queste è solo rappresentata. In questa direzione non sono stati molto confortanti i passaggi della Carta Ecumenica che, sfumando la differenza tra evangelizzazione e proselitismo, tende ad assimilarli laddove non ci fosse accordo preliminare; il che vale a dire, in un futuro prossimo, che l’evangelizzazione la si dovrebbe fare solo se la chiesa di maggioranza la approva e perciò come essa vuole che sia fatta. In tutto ciò le chiese pentecostali non riescono a veder la libertà dell’Evangelo, ma solo il tentativo di compromessi e mediazioni che da esso allontanano. In questa prospettiva le grandi organizzazioni ecumeniche non infondono molta fiducia e pertanto l’adesione ad esse diventa problematica.

4. Prospettive

   Quanto finora detto induce le chiese pentecostali ad essere prudenti nel rapporto con il movimento ecumenico; una prudenza che concretamente si manifesta nell’intendere il dialogo e le relazioni secondo una scaletta di priorità. Esse considerano in primo luogo il dialogo interpentecostale come essenziale alla percezione del fenomeno mondiale che è sotto gli occhi di tutti e che cresce con ritmi vertiginosi rendendone a volte difficile la comprensione; in secondo luogo ritengono importante e decisivo il dialogo con le altre chiese evangeliche, sia quelle di tradizione riformata che quelle di altre tradizioni, per il comune patrimonio di fede, storia e teologia che con esse ritengono di avere. Infine, con la chiesa cattolica se si creano condizioni accettabili. Proprio in relazione a questi due ultimi aspetti vi sono, tuttavia, alcune questioni di fondo che rendono il dialogo complesso e spesso difficile. Sembra, infatti, che vi siano ancora dei condizionamenti di tipo culturale nei confronti dei pentecostali. Ne cito qui alcuni molto rapidamente.

   Una è di tipo storico e risale ai tempi della Riforma con la contrapposizione che scoppiò con i cosiddetti spirituali o radicali; tutti sappiamo quale fenomeno composito fu la Riforma Protestante del Cinquecento e tutti sappiamo che ci fu una feroce lotta interna perché alcune spinte riformatrici politicamente non corrette fossero neutralizzate. Tra queste la spiritualità carismatica che fu semplicemente respinta come esaltata e da allora in ambito riformato è rimasta una sorta di idiosincrasia che solo negli ultimi anni pare un po’ più relativizzata, ma neanche troppo. Certo, i movimenti carismatici non sempre si sono proposti in modo accettabile, ma spesso non si è dato neanche tempo perché potessero farlo. Inoltre, bisogna chiedersi se per caso la spiritualità carismatica non sia di per sé un inciampo per chiese e spiritualità che modulano con registri diversi la propria articolazione. Insomma, si tratta di categorie diverse sul piano teologico e del vissuto spirituale, più che semplici modi diversi di intendere la fede.  E forse da ciò prende anche le mosse la convinzione, spesso ripetuta, che da per scontato il fatto che non ci sia molto margine di dialogo. Ovviamente oggi vi sono sul tavolo anche altre questioni a mio parere molto ideologizzate e che vengono proposte quasi come condizione per un dialogo; vale a dire la questione della modernità e dell’esserne o meno figli, dell’accettarla o meno, e il suo pendant, cioè la cosiddetta ‘frattura epistemologica’ che la modernità avrebbe provocato imponendo un’ermeneutica biblica a senso unico per la quale biblicismo e storicismo sono visioni contrapposte e inconciliabili. Se tutto ciò è posto come pregiudiziale ad un’apertura verso i pentecostali e gli stessi organismi ecumenici assumono per se questa filosofia metodologica perché meravigliarsi dei sospetti verso l’ecumenismo che i pentecostali manifestano? Esso viene visto come un sentiero già tracciato sopra il quale si può stare solo a certe condizioni.

   I pentecostali non chiudono le porte al dialogo con la chiesa cattolica, ma con una serie di distinzioni perché il cattolicesimo è un mondo poliedrico e variegato dove le posizioni sono molto diverse e dove si ha un concetto di ecumenismo diversificato tra la gerarchia e la base; in Italia in modo particolare andrebbero chiarite una serie di questioni che costiuiscono le pre-condizioni di un dialogo vero e proprio; tutto ciò nella consapevolezza reciproca che il pentecostalesimo e il cattolicesimo istituzionale sono quanto di più distante ci possa essere sul piano della concezione ecclesiologica. Appaiono, infatti, sempre più strumentali le dichiarazioni fatte negli ultimi tempi da alti esponenti della chiesa cattolica circa la necessità da parte di questa’ultima di avvicinarsi si più al mondo evangelico conservatore e pentecostale perché più affine sul piano etico. A parte l’infondatezza di questa affermazione che sembra fatta più con l’intento di mettere in allarme le chiese protestanti storiche, rimane l’enorme contraddizione con la quale la chiesa cattolica vive le relazioni con quelli con i quali vorrebbe stringerle seguendo la politica del bastone e della carota (come spesso è accaduto anche in trasmissioni televisive); senza contare il fatto che le relazioni ecumeniche presuppongono che ci si sieda ad un tavolo con pari dignità: non, da una parte una chiesa con privilegi enormi che tende sempre a identificare se stessa con la Chiesa in quanto tale senza riconoscere lo stesso status ad altri, dall’altra chiese i cui membri non riescono a volte a far valere neanche i propri diritti di cittadini e che spesso li vedono conculcati proprio per il condizionamento sociale e politico operata dalla chiesa di maggioranza. Se le chiese cosiddette ‘storiche’ (tra cui quella romana è la più antica), soprattutto in Europa,  non si spingono un po’ oltre le affermazioni teoriche relative alla necessità di accettare il pluralismo culturale e teologico mentre in pratica lavorano per conservare privilegi e posizioni dominanti, non vi sarà mai spazio vero di dialogo con le chiese più giovani.

   E’ necessario che il movimento ecumenico prenda atto del fatto che il cristianesimo pentecostale e quello più ampiamente carismatico interpretano un’esigenza fondamentale e cioè che la fede cristiana non può ridursi ad essere solo elaborazione teologica e dialogo prevalentemente intellettuale; essa vuole essere elaborata, vissuta e goduta attraverso una pluralità di registri e di proposte spirituali che devono essere integrati nel più ampio quadro della tradizione cristiana. Si tratta di una prospettiva decisiva e centrale entro la quale bisognerà muoversi nei prossimi decenni facendo tesoro di quanto da tempo autorevoli studiosi, quali Jurgen Moltmann, Michael Welker ed altri vanno segnalando proprio in questa direzione. Ma anche il movimento pentecostale e carismatico deve prendere atto del fatto che la sua comparsa nella storia è avvenuta nel quadro della tradizione cristiana e perciò non può procedere come se tutto il resto non fosse mai esistito o non esista; in questa direzione bisogna recuperare una chiave di lettura che già David du Plessis aveva elaborato piuttosto lucidamente valutando positivamente le spinte aggregatrici mondiali che hanno portato molte famiglie cristiane a trovare intese di azione comune e, anzi, vedendo nell’esperienza carismatica una delle possibilità per superare le divisioni. Questi due fenomeni che in modo diverso e indipendentemente l’uno dall’altro hanno molto caratterizzato la storia del cristianesimo del XX secolo, dovranno necessariamente chiedersi come rapportarsi l’uno con l’altro nel XXI secolo.

Tratto dalla rivista “odos”, n. 0, anno 2011